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La lezione di Ionesco: la filologia porta al peggio

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Ci sono un professore, una governante e un’allieva. Non sono i personaggi di una barzelletta, ma i protagonisti di una delle opere più rappresentative della produzione di Eugène Ionesco, “La lezione”, che tuttavia qualche elemento di comicità, seppur paradossale, lo contiene.
Una studentessa si presenta a casa di uno stimato professore per ricevere alcune ripetizioni di matematica e filologia al fine di conseguire il “dottorato totale”. Ad accoglierla e ad annunciarla, dopo aver rassettato la stanza dove si terrà la lezione, è una governante che ogni tanto farà la sua comparsa in scena. Tra allieva e professore si instaura sin da subito un rapporto amichevole, con un continuo scambio di gentilezze e smancerie: è tutto un “mi scusi, no mi scusi lei”, accompagnato da lodi reciproche. Poi inizia l’interrogazione: il professore pone alla ragazza domande di una banalità disarmante («quanto fa uno più uno?»), rimanendo esterrefatto nel constatare come lei sappia dare una risposta a tali quesiti. Quando però l’allieva inizia a incontrare delle difficoltà, la situazione muta e l’animo dell’insegnante comincia a scaldarsi. L’iniziale reverenza lascia spazio a moti di rabbia, che aumenteranno fino a che l’irrazionalità prenda il sopravvento su di lui. Impugnando un coltello immaginario, il professore uccide brutalmente la ragazza. Mentre l’uomo si disfa del cadavere, la governante rassetta nuovamente la stanza e qualcuno suona alla porta. «Buongiorno signorina, è qui per la lezione? Signore, la vostra allieva è arrivata!», e la storia è pronta a ripetersi.
Ionesco definì la sua “Leçon” un “dramma comico”, dove non-sense, paradossi e ripetizioni portano a una totale distorsione della verità. Non è un caso che uno degli esponenti del teatro dell’Assurdo scelga come materie di studio la matematica e la filologia che, sebbene di ambiti diversi, presentano dei tratti comuni, come la precisione, la rigidità di procedimento o, in una parola, la razionalità. E se la filologia in particolare è quell’amore per il logos, quella ricerca del significato autentico e originale, in Ionesco diventa al contrario mistificazione del verbo.
L’unica ventata di sensatezza sembra essere portata da Maria, la governante, che lancia a uno spettatore attento dei campanelli d’allarme su quanto sta per accadere. «La filologia porta al peggio», dice al professore quando cambia la materia di studio e parallelamente la sua indole, che diventa più rigida e autoritaria.
L’insegnamento viene rappresentato da Ionesco come strumento di potere e la violenza esercitata sulla ragazza, che trova il culmine nel suo omicidio, va di pari passo con l’accettazione passiva dell’Ipse dixit del docente, il quale esprime (in modo senza dubbio affascinante) cose del tutto prive di senso.
Il rovesciamento di situazioni e modi di essere è senz’altro un indizio dell’ipocrisia dei rapporti sociali e delle convenzioni all’interno della società. Ma c’è di più. Non si può non collegare quest’opera al contesto storico in cui si trova a vivere Ionesco, che ha assistito ai drammi della prima e della seconda guerra mondiale.
La nascita e la diffusione di quel teatro inscrivibile sotto il nome di “Assurdo” è quindi ben comprensibile, poiché solo le atrocità della guerra possono far comprendere il non-senso, la paradossalità e l’illogicità che contraddistinguono il genere umano.
La circolarità dello spettacolo, che termina nello stesso modo in cui è iniziato, lascia intravedere l’impossibilità al cambiamento, la non volontà del protagonista e di ciò che simboleggia di tentare nuove strade, di abbandonare la posizione dominante che ricopre nella società per conciliarsi con le visioni di chi, in una neanche troppo immaginaria gerarchia, si trova al di sotto di lui.
«La spada uccide tante persone, ma ne uccide più la lingua che la spada», dice la Bibbia. Chissà se l’allieva sarebbe stata d’accordo.

Patrizio Minnucci