A quarantatre anni dall’uscita di uno dei capolavori della letteratura italiana mi preme ricordare che Stefano D’Arrigo stese, pensò, scrisse e riscrisse il suo capolavoro agli Altipiani di Arcinazzo, nell’estremo nord della Ciociaria, dove sovente soggiornò durante i venti anni di lavoro intenso per realizzare Horcynus Orca. Diamo atto ai comuni di Arcinazzo e Trevi nel Lazio che nel quarantennale organizzarono un convegno a tema in cui spiccarono gli interventi di Walter Pedullà e Gualberto Alvino, grandi studiosi della monumentale opera darrighiana, con contributi dei nostri Giovanni Fontana, Raffaele Manica tra gli altri artisti convenuti da tutto il mondo e mi scuso con coloro che ora mi sfuggono. Tuttavia Horcynus Orca resta un libro per i più chiuso, ermetico, ostico. E ciò non risulta nella pratica di lettura perchè D’Arrigo, tra la frescura degli Altipiani studiò i modi più semplici per giungere a una scrittura il più possibile chiara e accessibile a tutti. Quell’aria gli ricordava paradossalmente il mare e financo l’odore, un Arcinazzo di mare, un mare rovesciato sugli Altipiani. La poetica che accompagna e risuona in Horcynus Orca giunge in gran parte da queste emozionanti sensazioni dell’autore. Quindi urgono nuovi convegni, nuovi studi, conferenze, progetti, affinchè le incredibili 1200 pagine del capolavoro nato dalle suggestioni della nostra terra siano finalmente patrimonio letterario di tutti i lettori, a partire dalle scuole fino ai posti di lavoro, uffici, fabbriche, aziende e naturalmente biblioteche e centri culturali. Ne vale la pena.
Patrizio Minnucci