HOMEPAGE CRONACA GALIMBERTI A VEROLI, QUANDO UN GIGANTE E’ ALTO COME NOI

GALIMBERTI A VEROLI, QUANDO UN GIGANTE E’ ALTO COME NOI

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Il nichilismo giovanile secondo Umberto Galimberti. E su un palco a Veroli, che ha inaugurato il suo ciclo di lezioni del Festival della Filosofia con lo spolvero che appartiene alle grandi riflessioni. Una serata che ha fatto cardine sul concetto di coraggio. Coraggio di mettere il pensiero in prima linea e coraggio di farne elemento di spettacolo in senso classico. Perché vale la pena ricordarlo: il senso di reducismo dalla pandemia e il contesto estivo non erano certo elementi che aiutassero ad affrontare tematiche ostiche come quelle legate alla filosofia. Ma a Veroli certi miracoli accadono più facilmente perché Veroli è da sempre cittadina benedetta dal gusto delle quote alte, in quanto a cultura. E stavolta l’assioma ha funzionato ancor meglio. Lo hanno sottolineato in esordio di serata e con legittimo orgoglio i fautori di un’niziativa che è gemma per l’intero territorio. Sono Fabrizio Vona come art director, Francesca Cerquozzi come delegata al tema e Simone Cretaro come sindaco, tre vertici di un triangolo obiettivamente benevolo che ha schiuso l’occhio curioso della platea su faccende profonde. Profonde al punto tale che Galimberti ha subito chiarito l’aspetto dialogico della faccenda, e ha preteso le luci in platea. Il filosofo ha dato uno scossone vero e forte, e lo ha fatto con quel tono pacato, colloquiale e mai in punta di spleen con il quale riesce a rendere drammaticamente potabili i grandi sistemi di riflessione. E con quel pizzico di dirompente dissacrazione che lo ha fatto esordire più di sciabole che di fioretto, quasi a voler subito distruggere un mito di volgo. Affermando cioè che i valori che il nichilismo giovanile aggredisce sono contingentati all’epoca, sono solo tacche in una scala relativa al fulgore del sistema che in quel momento li spandeva. E quindi il loro venir meno non è poi così tragico. Mentre invece l’assenza di scopo e di riposte alle domande sono gli esatti luoghi dove il dramma del nichilismo si sostanzia. Con la sua visione sistemica del Cristianesimo occidentale visto come collante culturale più che come singolo sacello di fede, il filosofo ha preso per mano la platea verolana e l’ha condotta nei luoghi dove riflettere equivale a mettere in discussione paradigmi magari considerati intoccabili. Luoghi come il concetto di limite dell’etica greca, incarnato da ‘tanatos’ dalla morte intesa come paletto per definire un’esistenza ortodossa, non come tragico travaso in mondi sconosciuti e bui dove misurare peccati o esacerbare virtù. Da questo punto di vista il nichilismo appare come antitesi di quella necessità di non oltrepassare il limite, di non ubriacarsi di eccessi (da ubris, cioè esagerazione) e di vivere secondo regole che civiltà occidentale prima e cristianesimo poi hanno codificato il leggi e comandamenti. Ma lo hanno fatto ignorando il concetto basico di limite ed esasperando quello di sviluppo. E qui Galimberti ha toccato note altissime, quasi guareschiane, quando ha enunciato la netta differenza fra il concetto di sviluppo, di civiltà e quello di progresso, che del secondo è un’aberrazione. Giovannino Guareschi, in uno dei suoi celeberrimi motti sul Candido, considerava infatti il wc rurale fuori di casa un fatto di civiltà e quello cittadino in appartamento un fatto di progresso, perché per lui la civiltà era una cosa ‘più scomoda ed impegnativa, ma più alta, che tiene lontana la puzza del vivere secondo il bisogno. Perciò solo chi non sa cos’è una vacca la chiama mucca’. E poi, nel disegnare la genesi del nichilismo, loro, i bambini, le loro mappe cognitive ed affettive, le pulsioni grafiche con cui le esternano e gli studi freudiani a riguardo. E una necessità di sostanziamento empirico del concetto di Stato che puo’ evitare che “i bambini crescano come possono”, persi fra televisione, social ed altri simulacri di interazione che del nichilismo sono concime fertile. Cosa succede insomma quando il processo educativo non è fertile, quando non si apre la mente? Galimberti va giù di contrappasso e cita l’esempio dei docenti modello: di quegli insegnanti cioè da cui si resta affascinati da subito. E di come in loro presenza l’atto di abbeverarsi al sapere sia più proficuo e immediato, non foss’altro che per il narcisismo di non fare brutte figure di fronte a chi si ammira. E questo porta ad una ridefinzione, ovvia quanto necessaria, del concetto di insegnamento, “non un lavoro, ma una dimensione psichica”. E la panacea? Non c’è dubbio; per Galimberti è la letteratura, pervasiva in ogni ordine scolastico, ferace, teatrante, prezzemolina e bella come solo le grandi scommesse vivificatrici sanno essere. Perché la letteratura è la lente acuta e pignola su tutta la gamma dei sentimenti umani, perché i sentimenti non sono genetici ma indotti per didattica ampia, condotti nel nostro animo da un modello esistenziale che sta scomparendo e che, se assente, spinge al buio dell’inedia intellettuale e dell’inerzia esistenziale. Cioè al nichilismo. La chiosa è rutilante, zibaldonesca, e forte: partendo dalle necessità di mano d’opera civile e militare con cui l’Impero romano iniziò ad importare “barbari”, Galimberti ha sciabolato su alcuni fenomeni contemporanei. E ha disegnato la rotta dei nuovi migranti di oggi. Lo ha fatto con tanta cruda efficacia da indurre più di una riflessione in un pubblico che, per paradigma mainstream, tende a deprecare un fenomeno senza assaggiarne immaginificamente le vere dinamiche. E cioè i viaggi attraverso il deserto, le traversate, la morte, la paura. E ancora il concetto di crescita e potenza intellettuale, i grandi geni e la giovane età in cui furono feraci, Mozart, Leopardi, Einstein e i grandi guru del web. Quasi a sottolineare che c’è una sola età, una sola finestra in cui intervenire. E sull’altro fonte la pubblicità, che non reclama prodotti ma crea bisogni. Un caleidoscopio di concetti con cui Galimberti ha disegnato la mappa di come si arriva al nichilismo e di cosa andrebbe fatto per evitare che sommerga le generazioni più giovani. Perchè sono in balìa di un mondo che non le guida, perchè quel mondo ha perso il concetto stesso di essere nocchiero di coscienze. E perchè lavora sui problemi solo a livello congiunturale, secondo l’equazione produzione-consumo, che farcisce la terra di rifiuti e le menti degli uomini dell’ipnotico veleno dell’indifferenza. Veroli si compiace di cosa ha messo in piazza, messo in sicurezza e chiosa anch’essa: bene, bravo, bis.
Monia Lauroni