HOMEPAGE GENTE COMUNE Rubriche, Salute mentale: sciogliere nodi e farne fiocchi

Rubriche, Salute mentale: sciogliere nodi e farne fiocchi

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Mi è capitato di rileggere, pochi giorni fa, la definizione di “salute mentale” proposta dalla Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo cui “la sanità è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità”.
In un primo momento sono stata colta da una sorta di resistenza nei confronti di questa definizione, percependola come certamente seduttiva – soprattutto in riferimento all’espressione “completo benessere” – ma, al tempo stesso, capace di evocare un certo vissuto di disorientamento, sembrando, sulle prime, una sorta di “manifesto”, uno “slogan” teso a valorizzare una condizione ideale, dunque, per definizione, difficilmente realizzabile.
Riflettendoci meglio, però, la mia attenzione si è progressivamente concentrata attorno a quel gap, a quel salto, che tale definizione sembra indicare tra la “semplice assenza di malattia o di infermità” e lo “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”. Forse – mi sono detta – si potrebbe considerare tale definizione un’istantanea, una fotografia, di una condizione – il completo benessere – tutt’altro che fissa e immutabile, bensì, il più delle volte, mutevole, in continuo divenire, da conquistare a più riprese.
Dalla dimensione ideale proviamo ora a trasferirci a quella della realtà. Due mie libere associazioni al riguardo.
La prima ha a che fare con il ruolo che la realtà sociale ha nel favorire lo sviluppo di benessere psichico, oppure, al contrario, l’insorgenza di particolari forme di disagio mentale. Il panorama attuale sembrerebbe tutt’altro che roseo. Basti dire che nel corso del “Convegno Internazionale di Suicidologia e Salute Pubblica”, tenutosi a Roma il 13 e 14 settembre in occasione della “Giornata Mondiale per la prevenzione del suicidio”, si è evidenziato che in media avviene una morte per suicidio ogni 40 secondi ed un tentativo di suicidio ogni 3 secondi. Tale dato, nella mia mente, ha fatto eco con le allarmanti stime dell’OMS secondo cui, entro l’anno 2020, la depressione rappresenterà la sindrome psicopatologica più diffusa, seconda solo alle malattie ischemiche nel determinare disabilità. Crisi economica, precarietà delle condizioni di vita, livelli di disoccupazione crescenti chiaramente influiscono, in modo massiccio, sull’esacerbazione del disagio psichico ma anche sull’insorgenza di nuovi bisogni associati a nuove forme di malessere, che, talvolta, si presentano come vere e proprie emergenze psichiche, emorragie da tamponare. In un periodo, per certi versi tanto difficile, come quello che stiamo vivendo, quanto la nostra salute mentale può essere messa a dura prova, e come possiamo provare a preservarla, a proteggerla, a tutelarla?
Da qui la mia seconda libera associazione, che, da un piano sociale, ci conduce direttamente verso una dimensione individuale.
Quale è il nostro atteggiamento nei confronti dell’esperienza del dolore psichico? Come ci predisponiamo ad affrontarlo? Anzitutto, difendendocene.
Sin da quando è molto piccolo, un bambino, con ogni mezzo che ha a disposizione – seppur, dapprincipio, primitivo ed immaturo – si protegge dalla possibilità di sperimentare dispiacere, che, all’inizio della vita psichica, può consistere in qualsiasi stimolazione, proveniente dall’esterno o dall’interno di sé, che non conosce e che avverte come una potenziale minaccia alla propria integrità somatopsichica, quindi alla sua stessa sopravvivenza. Poiché a mali estremi corrispondono estremi rimedi, il bambino proverà ad allontanare, espellere, evacuare da sé il dispiacere, come fosse cibo indigesto, che non può elaborare, date le sue rudimentali capacità percettive, cognitive, emozionali. Sarà la madre del bambino – o chi per lei – ad avere un ruolo fondamentale nel compito di favorire, in lui, gradualmente, l’evoluzione di tali capacità, in via di sviluppo. Se le cose andranno sufficientemente bene, sarà infatti lei, all’inizio, a fare da schermo protettivo, da barriera e da filtro rispetto a sollecitazioni che il bambino non è in grado di tollerare, placandole e mitigandole anziché esacerbandole ed intensificandole. Sarà lei, all’inizio, ad elaborare, per il bambino, ciò che lui non può digerire, al fine di restituirglielo in una forma depurata da contenuti nocivi, per lui più “commestibile”, di cui possa cominciare a “nutrirsi”. Sarà sempre lei, gradualmente, ad esporlo a piccole dosi di esperienze di frustrazione, ad esempio posticipando la soddisfazione di un suo bisogno, facendogli sperimentare l’attesa, la mancanza, la separazione – da una madre, o da un padre, che vorrebbe tenere sempre accanto a sé, e che scopre, invece, avere una loro vita autonoma, indipendente, fuori dal suo controllo.
Tali precoci esperienze di frustrazione avranno un valore inestimabile nel favorire la crescita psichica del bambino. È solo in condizione di assenza di uno stato di “completo benessere” che egli sarà chiamato ad attingere alle proprie capacità cognitive ed emozionali, compiendo un lavoro, dunque effettuando uno sforzo, al fine di riuscire ad approssimarsi ad una condizione per lui più tollerabile. Solo così egli potrà iniziare a sviluppare il pensiero, ad affinare competenze, funzioni, risorse che saranno per lui necessarie per stare nel mondo sufficientemente bene, in un rapporto adeguato, sano e maturo con sé e con la realtà. Solo così egli gradualmente riuscirà a fare sua la capacità di affrontare la frustrazione, sviluppando la speranza di poterlo fare da sé, supportato da un mondo buono di cui si può fidare.
La primitiva impronta che caratterizza il rapporto del bambino nei confronti del dolore sarà mantenuta nell’uomo che è in lui. È naturale che ognuno di noi, di fronte a esperienze di sofferenza – quali, ad esempio, malattie, crisi evolutive, perdite, separazioni, lutti – facciamo uso di uno strutturato, ben consolidato, più o meno adattivo, sistema di difese psichiche. È certamente sano che possiamo non lasciarci sopraffare dal dolore, potenzialmente disorganizzante, attribuendogli un senso e rendendolo combustibile per una ulteriore crescita personale. Che ciò possa avvenire, però, non è affatto scontato.
A livello sociale è evidente quanto un atteggiamento improntato all’idealizzazione della forza e della (onni)potenza individuale vada di pari passo ad una massiccia svalutazione dell’esperienza del dolore psichico, considerato non un potente alleato bensì un ostacolo per lo sviluppo psicologico. Siamo continuamente sollecitati a sfidare i nostri limiti, ad intraprendere prestazioni che eccedono le nostre capacità, difficili da sostenere. Dobbiamo apparire sempre forti, prestanti, “sul pezzo”, competenti, vincenti, sicuri di noi stessi. Non c’è spazio per le imperfezioni, le sbavature, i tentennamenti. Non c’è tempo per il dolore. Chi si ferma è perduto. Occorre fare. Agire, non pensare.
A livello individuale tutto ciò può pericolosamente tradursi in una fuga dalla sofferenza, che può assumere, talvolta, la forma di una vera e propria “impennata” maniacale. Possiamo dunque ridurci all’onnipotenza, arroccandoci difensivamente su una posizione di invulnerabilità, di pseudo-indipendenza e di autosufficienza, distanziandoci dagli affetti e dalle emozioni, scalciandole via, trionfando su di esse, sprezzandole. Può, altresì, accadere che, a fronte dell’esperienza di difficoltà, regrediamo ad una condizione evolutiva che ci aveva caratterizzati in precedenza, più immatura, consolidando modi di pensare, sentire e comportarci per noi non più adattivi né funzionali per il nostro sviluppo.
C’è un altro destino, più promettente, cui può incorrere la sofferenza psichica, qualora riusciamo a non sentircene travolti, sopraffatti o smisuratamente spaventati. È un destino che necessita di pazienza, di tempo e di lavoro, affinché possa iniziare ad esistere. È necessario riuscire a confrontarci con l’esperienza che stiamo vivendo, guardandola, attraversandola, percorrendola, anziché negandola ed eludendola; è indispensabile poter tollerare che la soluzione non è magica né immediata; è imprescindibile attingere alle nostre fragilità e vulnerabilità, facendone un uso costruttivo, perché è solo a partire da esse che possiamo costruire la nostra forza. Occorre rinunciare alla seduttiva rassicurazione delle nostre certezze per avventurarci sullo sconosciuto sentiero di ciò che di noi non sappiamo; d’altronde dal “già saputo”, da ciò che è già in luce, non possiamo cavar fuori nulla, certamente nulla di nuovo. Ed è solo in tal modo, dando avvio ad un percorso conoscitivo su noi stessi, percorrendo i nostri personali “nodi”, risalendo alla loro origine, che possiamo scoprire nuovi, più funzionali e costruttivi modi di farne uso, potendoli trasformare in fiocchi. È solo attraverso questo tipo di operazione che, ognuno di noi, ha la possibilità di avviare un processo trasformativo che gli consenta di conquistarsi un ruolo vitale e costruttivo nei confronti di sé e della realtà, aumentando il senso di pienezza della propria esistenza e di partecipazione attiva ad essa, vivendo in modo più autentico le proprie esperienze, sviluppando un pensiero creativo ed accrescendo il proprio senso di libertà individuale.
A mio modo di vedere è con questo che ha a che fare la sanità mentale, e nessun uomo può raggiungerla se non tramite un processo di costante lavoro.

Francesca Straccamore
Psicologa Clinica
Psicoterapeuta
Dottore di Ricerca in Psicologia Dinamica, Clinica e dello Sviluppo