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Nati in Ciociaria, Tommaso Landolfi

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Nato a Pico nel 1908, vi sono testimonianze che ricordano Landolfi in paese uscire di casa solo di notte per le sue passeggiate nel silenzio e nel buio della campagna. Tra un’accesa polemica con l’altro ciociaro Anton Giulio Bragaglia e l’altra, qualcuno lo ricorda partire per Firenze con la sua motocicletta Indian 500, sfrecciante e fragorosa. A Firenze si era laureato nel 1932 in Lingua e Letteratura russa con una tesi sulla poetessa Anna Achmatova divenendo esperto slavista. Alla vigilia della guerra fu tenuto a lungo in prigione per antifascismo. In quegli anni tuttavia collaborava alle riviste “Letteratura” e “Campo di Marte”. Dalla guerra sino alla morte avvenuta nel ’79 ha alternato soggiorni a Roma con frequenti ritorni a Pico.

Spirito libero, bastian contrario attento, contestatore e polemista arrabbiato, Landolfi tuttavia era un profondissimo conoscitore dell’animo umano, come emerge dalle sue prime opere narrative e dal suo suo raffinato studio degli scrittori russi. Infatti nel 1930 escono il racconto “Maria Giuseppa” e la recensione al “Re Lear delle Steppe” di Turgenev: il suo doppio destino di scrittore e slavista è segnato. Slavista però è termine che poco si adatta al Nostro in quanto l’incontro con la letteratura russa è in realtà un incontrare una parte di sè stesso: e “l’uomo superfluo” – in cui confluiscono senso di estraneità, stanchezza spirituale, profondo scetticismo – diventa uno specchio nel quale non cesserà di guardarsi. Per non parlare del dualismo morale, dei fantasmi, dell’innocenza russa, di Gogol’ e Dostoevskij, che entrano stabilmente fra gli agenti attivi della sua immaginazione, per poi rifluire nella narrativa. Non meraviglia allora che in Russia Landolfi non sia mai andato: quel paese era e sarebbe rimasto un’immagine, la matrice di una letteratura consegnata a “un eterno romanticismo”, nonchè di scrittori irriducibili agli schemi, capaci di ricreare da capo il proprio mondo. Nè meraviglia che il prestigio di russista gli sia apparso da ultimo una persecuzione come a molti traduttori italiani: traduzioni, lavori venali che lo allontanavano dal suo proprio lavoro di scrittore. Accanto alle finissime traduzioni dal russo, Landolfi traduceva brillantemente anche dal tedesco e dal francese. La sua intera opera ci lascia ammirati e non ha eguali nel nostro Novecento. Vorrei concludere ricordando il grido disperato di Michele Santulli che, qualche anno fa proprio dalle colonne del nostro giornale, invitava le istituzioni ciociare a partire dalle scuole sino ad ognuno di noi singoli a leggere, studiare, ordinare in libreria i testi di Landolfi, per non dimenticare questo figlio della nostra terra.

Quest’appello lo facciamo nostro.

Patrizio Minnucci