HOMEPAGE CULTURA Enzo Verrengia analizza la “Generazione Zeta”

Enzo Verrengia analizza la “Generazione Zeta”

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Sono i fratelli minori dei millennials, e si chiamano centennials. Ambedue i termini li hanno coniati i sociologi William Strauss e Neil Howe, che da anni seguono, dissezionano e analizzano le metamorfosi cui va soggetta la civiltà avanzata, condannata a un’instabilità permanente detta evoluzione. Il contrario di quanto accade alle culture tribali indigene, che non conoscono i conflitti generazionali e l’avvicendarsi di spinte innovative. Per loro le norme restano immutate da millenni.

I centennials compongono la Generazione Zeta, indicata dall’ultima lettera dell’alfabeto, perché dopo c’è il nulla e ne rappresenta l’anticipo. Per quelli che vi appartengono persino i social tradizionali risultano troppo impegnativi concettualmente e manualmente. Digitare frasi più o meno lunghe, utilizzare un lessico, rispettare le convenzioni del linguaggio, sia pure ridotto al minimo, è troppo per atrofizzati da famiglie iperprotettive quanto disastrate, al sicuro da ogni rimprovero, con la completa libertà di non rispettare le regole, soprattutto nelle aule scolastiche, dove se presidi e insegnanti osano ripristinare i propri ruoli rischiano aggressioni, anche da quei genitori che coccolano la Generazione Zeta nei bozzoli di stordimento digitale e anche chimico, quando interviene la droga.

Modalità private moltiplicate per milioni di esistenze che sbocciano già marcite. Le impennate di violenza sono il contraltare di un’apatia più che amorfa. Niente più Facebook e Twitter. Meglio Instagram, che richiede solo l’utilizzo di foto e immagini. È l’avvento di qualcosa che va oltre l’analfabetismo. È il rifiuto non solo della parola, del linguaggio e della scrittura. È il ritorno alla comunicazione primeva delle illustrazioni rupestri in forme digitali. Gli aspiranti youtubers, al confronto, sembrano emuli dei cinéphiles che fecero la nouvelle vague. Inventare scenette e gag da postare sul canale televisivo più diffuso di Internet presuppone un impegno creativo scandito dal rispetto di certi tempi, dall’organizzazione significante di materiali grezzi, un allestimento scenografico, sia pure minimo.

Niente che possa sollecitare i neuroni sconnessi della Generazione Zeta. Quella lettera fatidica, del resto, rimanda alla figura dello zombi. Infatti, una delle serie più seguite dai centennials è “The Walking Dead”, granguignolesca saga di un futuro postapocalittico dominato dai morti viventi.

Persino l’iniziativa erotica viene trasferita dalla realtà all’oscenità del blob digitale. Sexting, cioè sesso via messaggio su smartphone (sex + text): è la pratica degli adolescenti, che dagli Stati Uniti trabocca in tutto il mondo. Vi dedicò già sei anni fa la copertina il mensile Atlantic. L’occasione stava nella cronaca estrema di Louisa County, uno sperduto pezzo di America della fonda provincia, dove gli studenti della locale media superiore (high-school) esercitavano un frenetico scambio di foto con le proprie nudità. A base di selfie, s’intende. Il servizio su Atlantic, intitolato “Why Kids Sext”, perché i ragazzi fanno sext, lo firmava Hanna Rosin, già autrice del saggio La fine degli uomini. Vi si legge: «Ogni razza, religione, ogni status sociale e economico in città. Ricchi e poveri, tutti. Se sei un adolescente e hai un telefono sei là dentro». Non si può nemmeno parlare di scandalo. È una tendenza come altre, di deriva estrema. Ad ulteriore conferma di quanto afferma Paul Di Filippo, lo straordinario scrittore di fantascienza sociologica: «La società moderna è già di per sé qualcosa di così scandaloso che la satira diventa impossibile».

Il sexting della Generazione Zeta è il confine estremo del sesso sicuro nell’era dell’AIDS e, adesso, del coronavirus, quando per i contatti personali ogni possibile precauzione cautelativa non sembra mai sufficiente. Si realizza dal vero il racconto “Protezione”, di Primo Levi, tratto dall’antologia Vizio di forma. La minaccia di micrometeoriti impone a tutti di indossare corazze per evitare di essere colpiti, e questo muta le relazioni umane nel senso di una dilagante paranoia.

Dal dopoguerra, in Italia torna puntuale la cacofonia degli studiosi, degli opinionisti, dei predicatori e dei ciarlatani strapagati di una sociologia “di tendenza” sul “che fare” dell’ultima generazione di turno. La quale nel frattempo cresce e si disperde nell’ordinaria quotidianità della vita adulta, interrogandosi a sua volta su quelli che arrivano.

Con la Generazione Zeta il ciclo si ferma per sempre.

Enzo Verrengia