HOMEPAGE CULTURA 75esima Mostra cinematografica di Venezia

75esima Mostra cinematografica di Venezia

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Quella di A star Is Born è una di quelle storie che è stata raccontata e riraccontata un’infinità di volte e di versioni – alcune passate alla storia, come quella di George Cukor del 1954 con Judy Garland e James Mason e quella di Frank Pierson del 1976 con Barbara Streisand e Kris Kristofferson. Del resto il soggetto è effettivamente la quintessenza del grande romanzo popolare adattabile a ogni epoca, momento storico e tendenza cinematografica.
Bradley Cooper, al suo esordio da regista, segue soprattutto il film di Pierson, anche se con la precisa volontà di privilegiare la storia d’amore fra i protagonisti. Più che una parabola di affermazione, fallimento e redenzione sullo sfondo del mondo della musica pop, il film ha un’essenza tragica che fa leva sui sentimenti più elementari e su una serie di cliché assolutamente espliciti.
E dopotutto non è certo il filtro della metafora o la sperimentazione linguistica che si richiede a una storia che, come si diceva, si racconta quasi da sola – e ricordiamoci che siamo a Hollywood!- Motivo per cui il taglio un po’ ingenuo, diretto, persino grossolano di Cooper – che scrive il film insieme a Erich Roth, non esattamente uno qualunque – calza alla perfezione. I destini intrecciati dei due protagonisti – cantanti e compositori di musica mainstream – che innamorati l’uno dell’altra si incrociano per caso e l’uno aiuta l’altra nell’affermarsi nello star system.
Quello che cambia le carte in tavola sotto tutti gli aspetti però è la questione della musica. Bradley Cooper, che oltre che attore è anche musicista e cantante, dà al suo personaggio – modulato con grande attenzione su quello di Kristofferson (che artista musicale lo era anche di più) – un’ayra tragica che funziona alla perfezione. Asciutto, calibrato e con un look da cantante folk che, oggi 2018, ha davvero un’essenza crepuscolare  decisamente romantica, interpreta senza sbavature l’esecutore di un sound – che è anche uno stile di vita, un’idea, una leggenda – che sta scomparendo e di cui ci si sta scordando in fretta. Non è un caso che nei panni del fratello-manager del protagonista ci sia un attore come Sam Elliott, a cui basta un solo sguardo per rendere la malinconia di un tempo dimenticato.
E poi, più di tutto il resto c’è lei: Lady Gaga. Di certo non a suo agio con le dinamiche drammaturgiche che un personaggio complesso come il suo richiede (ma la Straisand lo era?) e decisamente goffa nel modo in cui tenta di calarsi in un ruolo che – forse, ma solo forse – non le appartiene completamente. Capace però di ribaltare tutto nel momento in cui si dà alla performance musicale. La presenza scenica, il grado di immersione interpretativa, la potenza e la straordinarietà vocale della cantante è quello che rende il film il contenitore emozionale e passionale che è. Uno dei grandi punti di forza della musica pop è quello di essere esplicita, capace di arrivare a chiunque, dappertutto e di spiegare in maniera semplice e orecchiabile i sentimenti e le emozioni che viviamo e di cui siamo fatti. Ed è esattamente questo che fa Lady Gaga: ci sbatte addosso le gioie, i dolori, le amarezze, i tormenti e le euforie che accompagnano tutte le storie d’amore. E i testi delle canzoni – scritte, oltre che interpretate dai due protagonisti, ma c’è anche la mano di Mark Ronson – indugiano su temi e stereotipi che agiscono sulla nostra ricezione primaria, impulsiva ed emotiva. Lasciandoci un po’ spiazzati per tutto il pathos a cui siamo sottoposti. Vedere (e piangere) per credere.

Alfredo Salomone